Solo una faccenda di cuore, oggi era solo un’intima faccenda di cuore!
Smise di battere, il mio e quello di tanti, sospeso in un tempo immobile venne straziato da infinite scosse di dolore; poi venne
oppresso e umiliato dal senso di impotenza e alla fine consumato dalla pietà.
Fu straziato in quel maledetto 24 Agosto del 2016, smise di battere e il tempo si fermò in quell’indimenticabile 30 Ottobre dello stesso anno.
Furono quasi 300 le vite cancellate, decine e decine i paesi sconvolti, distrutti, qualcuno annientato. Prima smisero di battere i
cuori, poi sembrò che Dio si volesse dimenticare degli uomini, e alla fine fu l’ignominia degli uomini stessi, di alcuni di loro, di
quelli che ci dovrebbero aiutare a superare queste tragedie a compiere il danno più grande.
Nemmeno la speranza per lunghi mesi e anni è esistita e nulla si faceva per far ritornare a battere quei cuori.
Le montagne sono diventate deserte, la Laga meno, totalmente i Sibillini, quello che il sisma non aveva cancellato lo ha fatto
l’incapacità amministrativa degli uomini e una buia epoca è calata sulle regioni intorno ai Sibillini e sulle montagne.
I profili delle nostre montagne erano diventati l’orizzonte costante cui rivolgere lo sguardo, linee care cui aggrappare ogni barlume
di speranza, forse anche ogni sogno, solo la pietà per le popolazioni coinvolte dal sisma frenava la rabbia, la dolente nostalgia e la
smania di ritornarci. La domanda era sempre la stessa, perché non far ritornare la gente in montagna? E non era fine a se stessa, era per
ridare vita e colore a quei paesaggi, era per ridare slancio anche ad un barlume di economia da ricostruire, era per far risentire vive
quelle persone relegate a vivere dentro dei cubi di alluminio. Ne è passato di tempo da quel 24 Agosto di un anno e mezzo fa, un tempo
immobile, pesante, senza un orizzonte, senza una speranza, fatto di sospiri, di sguardi aggrappati a quei profili aerei, di progetti
smaniosi che venivano riposti immediatamente nel cassetto, di rabbia muta, sempre e solo la pietà per le popolazioni colpite dal sisma
riusciva a mantenere placata la rabbia.
E poi il tempo, come sempre inarrestabile e soprattutto distaccato da tutte le cose terrene, è passato e c’è voluto Febbraio di quest’anno
per far riaprire la strada che sale a Forca di Presta, che dal versante marchigiano-abruzzese ti fa arrivare a Castelluccio, nel cuore dei Sibillini.
Sembro polemico e lo sono per volerlo essere, da Norcia, da Amandola e Tolentino qualche strada era stata aperta, ma ti facevano arrivare
alle pendici delle montagne, poi da qualche parte uno sbarramento prima o poi ti fermava; il Vettore è la montagna degli ascolani con buona
pace di tutti e gli ascolani erano tagliati fuori da un accesso facile, a meno di contravvenire ai tanti divieti.
E finalmente in questo Febbraio è arrivato il momento di ridare cuore agli ascolani e a quanti arrivassero da Sud Est e quei cuori hanno
risposto, hanno risposto in massa, hanno ripreso a battere, hanno liberato l’energia incontenibile che era stata forzatamente repressa.
I social hanno diffuso la notizia della riapertura della strada che sale a Forca di Presta, da Trisungo sulla Salaria e, c’era da aspettarselo,
la risposta è stata unanime, senza alcuna organizzazione ci siamo ritrovati tutti sulla giostra.
E naturalmente c’eravamo anche noi, era il cuore ad avercelo ordinato.
Senza fretta in una Domenica prevista incerta ci siamo messi sulla Salaria da Ascoli direzione Forca di Presta, da quasi due anni aspettavamo
questo momento, tutto ci sembrava strano eppure normale, intimamente un sogno che si realizzava, il silenzio durante i preparativi ed il viaggio
di avvicinamento lasciavano il posto ad una rispettosa e solenne cerimonia che concludeva l’attesa.
Siamo soliti percorrere la Salaria in quella direzione, nonostante non ci siamo mai abituati alla desolazione di Trisungo, alle spoglie di
Arquata, alla devastazione di Pescara del Tronto, ai fantasmi di Grisciano, quando abbiamo svoltato per deviare per Arquata/Pretare quel
cuore che aveva ripreso a battere si è per un attimo arrestato di nuovo; era vero tutto, il tempo era passato e le montagne ritornavano
accessibili ma lì davanti a poche svolte avremmo dovuto fare i conti con la nostra storia e le nostre tradizioni.
Borgo, poche case, puntellate, ferite a morte ma in piedi, le casette di legno ordinate ai piedi di Arquata assicurano dignità alle persone ma
non danno calore. Poche svolte, rovine isolate finchè non arrivi a Piedilama, finchè non arrivi a Pretare, a ciò che rimane di Piedilama, a
ciò che rimane di Pretare.
Distruzione, rovine, case dirute aperte a profanare intimità e storia di intere famiglie, moltissime completamente rase al suolo, le macerie,
molte sono state portate via ma hanno fatto spazio a irreali vuoti che sanno paradossalmente ancora più di tragedia e dolore.
Pretare ti sfugge via quasi non la riconosci più, ti aspetti qualcosa che conosci ma ti aspettano solo fantasmi, ti accorgi che non c’è più
nulla quando l’hai superato. Il bar Vettore, quella strettoia dove la strada serpeggiava per fuggire verso la montagna, tutto è diverso, tutto
manca; passiamo lenti, ciò che ci scorre a fianco ci travolge con un peso insostenibile, silenzio tra noi, lo stesso silenzio irreale che immagino
essere lì fuori. Storditi sfiliamo dal paese, dalle rovine ovunque, dai fantasmi delle case che crediamo di dover rivedere ad ogni curva, quasi un
sollievo superare l’ultima come se lasciarsi alle spalle quella devastazione fosse in grado di convincerti che era tutto un brutto incubo. Stavolta
dentro Pretare non ho sentito gli zoccoli caprini delle Sibille, anche loro hanno avuto pietà ed hanno lasciato il paese.
Nei tornanti che salgono a Forca di Presta, immersi in una nebbia buia penso inevitabilmente alla tanta distruzione e sul vuoto immenso che lascia,
geografico ed emotivo, faccio finta di non pensare a chi viveva in quelle case, faccio finta di pensare che ci sia un futuro, sento di amare ogni
singola rovina, ogni singolo mattone, ogni vuoto, ogni ricordo.
Mentre saliamo verso la sella incontriamo degli amici che si stavano preparando per salire dal vallone dei Mezzi litri, non era nei nostri piani,
sapeva di impegno fisico ed oggi doveva essere altro, un saluto veloce e via; eravamo certi, l’apertura della strada avrebbe portato su mezza
Ascoli Piceno, la mezza che ama la montagna e le premesse c’erano tutte.
Forca di Presta è avvolta da nubi ferme e scure, stranamente senza vento avvertiamo la bassa temperatura solo dopo un po’, ma nel frattempo ci
siamo mossi e non abbiamo il tempo di soffrirla. Ne è passato di tempo dall’ultima volta ma era come compiere gesti fatti il giorno precedente,
l’imbocco del sentiero, subito l’affanno perché non fai in tempo a rompere il fiato, l’aggiramento della prima altura, la prima ampia sella, ci
saremmo potuti bendare e saremmo saliti lo stesso. Avvertivamo la presenza della piana là sotto, nel grigio della nebbia, avvertivamo la presenza
di Castelluccio, mi è capitato sovente di alzare lo sguardo per cercarlo incurante della nebbia, stava terribilmente e sempre di più diventando
una faccenda di cuore.
Siamo saliti, curva dopo curva, la prima sella, traversi, un paio di rampe, il ghiaccio profilato sull’erba e i sentieri appena spolverati di
neve, tutto era impresso nella memoria e la nebbia era solo compagna nemmeno tanto fastidiosa. Sul traverso che porta sotto al Vettoretto in
pochi minuti, da una leggera luce che filtrava da quell’alone che voleva essere il sole creando ambienti suggestivi, siamo passati ad una
limpidezza di orizzonti sfolgoranti, la nebbia veniva risucchiata verso il basso, ora non dovevamo più immaginare. La nostra montagna non
poteva tradirci, ci stava accogliendo. Sotto al Vettoretto, dopo aver affrontato una piccola cornice, abbiamo dovuto montare i ramponi, il
resto è stato solo cuore ed un emozionante ritorno e credo lo sia stato per tanti; nonostante il nebbione la montagna era letteralmente assalita
da tutti i versanti. Raggiunta la sella sotto il Vettoretto minuscole figure punteggiavano le pagine innevate; salivano dal canale di San Lorenzo,
salivano da quello dei Mezzi Litri, molti sulla via normale, sulla cresta per la Cima del Prato Pulito, sembrava ci fosse stata una sorta di
appuntamento ed invece no, si trattava per tutti solo del richiamo del cuore.
Da poco sotto il Vettoretto in poi si è continuato sulla neve alta, una bella traccia permetteva di camminare spediti, i ramponi davano sicurezza;
il lungo traverso fino al rifugio Zilioli, sbarrato, in piedi, ma le ferite sono evidenti, so che il CAI di Ascoli si sta organizzando per ristrutturarlo.
Nel frattempo manco a dirlo, le nuvole hanno liberato le cime più alte, la Laga ed il Gran Sasso, il Terminillo, la Majella lontana e ancora
più lontano il Miletto e la piramide del Velino, quanto mi mancava questo panorama; le nuvole sotto, gli Appennini che emergono come isole,
bisogna solo trovarcisi per capire fino in fondo certi miracoli.
Mancavo dalla montagna da un mese e mezzo Marina da quasi tre, continuare verso la vetta è stata davvero una faccenda di cuore e anche di volontà,
le gambe imballate ed il fiato corto parlavano di fermarsi ma non ci si poteva arrendere oggi; un passo dopo l’altro, guardando verso la vetta
che sembrava non avvicinarsi mai, sulla dorsale i ramponi mordevano il ghiaccio, nei traversi dentro il vallone si camminava su una traccia
profonda. La prima croce, quella della cresta della punta di Pretare era ridotta ad un ammasso di pietre ricoperte dalla neve, la croce non
l’ho vista, gli sono sfilato accanto ad una cinquantina di metri, immagino non abbia retto gli scossoni. Inutile cercare anche il profilo della
contorta croce in vetta, non esiste più nemmeno lei, è stata tolta, recuperata e portata a valle mi ha riferito uno degli sciatori che ho
incontrato in cima.
Arrivare di nuovo in vetta al Vettore è stato un momento toccante, quasi avevo perso la speranza di poterci tornare. Forse è per la felicità
intima di essere lì che il panorama è sembrato più bello che mai. E’ difficile trovare il Vettore libero da nubi, oggi come ad un debutto,
tutto era perfetto, semplicemente bellissimo. Chi non conosce i profili della doppia cresta del vettore e del Redentore? Nitide, bianche,
maestose, le pareti del Redentore, uno scoglio imperioso Pizzo del Diavolo, sottili e definite le creste che scendono verso Forca Viola, il
bacino del lago colmo di neve, presto per dire se il lago sopravviverà, i profili delle cime più lontane, il Berro, la Priora e la Sibilla si
confondevano in qualche sfilacciata presenza di nubi che le rendevano ancora più belle; da non scendere più. Non serve descrivere oltre,
eravamo a casa, una casa ripulita, di nuovo viva con la presenza degli umani. Quanto mi è mancato, quanto ci è mancato questo familiare panorama!!!
La discesa è stata lenta e mesta, le gambe si sono sciolte, come le nuvole che via via che scendevamo di quota andavano diradandosi anche in valle.
A Forca di Presta ci attendevano gli amici che sono saliti per il vallone dei mezzi Litri, non me lo aspettavo, è stato bello incontrarli di
nuovo, calore si è aggiunto a calore.
Mi piace pensare che sia stata una faccenda di cuore per i tanti che oggi hanno voluto rivivere dopo tanto tempo il Vettore, ma vista
l’accoglienza viene quasi da pensare che anche le montagne il loro bel cuore e nemmeno tanto duro, ce lo abbiano da qualche parte!